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Importante risultato raggiunto da una Rete di ricerca Italiana

Uno studio multicentrico italiano ha permesso di individuare alcuni dei meccanismi patologici coinvolti nel malfunzionamento delle cellule nella Sindrome di Smith-Magenis (SMS), una rara e, allo stesso tempo, complessa patologia genetica che colpisce, a più livelli, lo sviluppo del bambino. La ricerca è stata condotta nell’IRCCS Fondazione Casa Sollievo della Sofferenza, da un team tutto italiano, coordinato dalla Dott.ssa Jessica Rosati sotto la supervisione del Prof. Angelo Luigi Vescovi, in collaborazione con il gruppo di ricerca della Prof.ssa Maria Pennuto dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare VIMM, la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e l’Istituto Neurologico Carlo Besta IRCCS, due dei maggiori centri clinici di cura per i bambini affetti dalla Sindrome di Smith-Magenis.

Il lavoro dal titolo “Retinoic acid-induced 1 gene haploinsufficiency alters lipid metabolism and causes autophagy defects in Smith-Magenis syndrome” è stato pubblicato sulla Rivista scientifica “Cell Death and Disease”. La Sindrome di Smith-Magenis (SMS) è una malattia genetica rara, causata nel 90% dei casi da una delezione nel braccio corto del cromosoma 17 (17p11.2), e nel restante 10% da mutazioni puntiformi nel gene RAI1. I bambini con questa sindrome presentano significativi deficit neuro-cognitivi, dismorfismi craniofacciali, obesità, disturbi del sonno e del comportamento. La prevalenza mondiale è di 1/15.000-25.000 in tutti i gruppi etnici, ma è molto probabile che vi sia una sottostima nelle diagnosi.La ricerca in questione costituisce una pietra miliare nello studio di questa patologia perché, sino ad oggi, questa Sindrome è stata prevalentemente studiata solo da un punto di vista clinico.Dal 1986, anno in cui venne diagnosticata per la prima volta, non sono state sviluppate terapie efficaci per la cura.

Il progetto ha avuto inizio cinque anni fa con il prelievo di cellule da un primo paziente; successivamente, grazie all’aiuto fondamentale dell’Associazione Smith Magenis Italia, che ha sensibilizzato le famiglie coinvolte rispetto all’importanza della ricerca scientifica, è stato possibile ottenere e indagare un numero consistente di linee paziente-specifiche. Queste linee cellulari, sono state essenziali per dimostrare che esistono alcuni processi deregolati all’interno della cellula, comuni a tutti i pazienti, al di là della variabilità genomica e sintomatologica di ciascuno di loro. In particolare, nelle cellule dei bambini con Sindrome di Smith-Magenis (SMS), è emerso come si accumulino i trigliceridi, sotto forma di gocce lipidiche, a causa di una deregolazione del processo di smaltimento dei rifiuti cellulari. Questo blocco del processo di smaltimento provoca una sofferenza nella cellula, con un accumulo di radicali liberi che porta alla morte cellulare.

“Una volta individuato questo meccanismo, siamo riusciti a migliorare con un farmaco il fenotipo patologico nelle cellule agendo sull’accumulo dei trigliceridi e dei radicali liberi e ottenendo un miglioramento della vitalità cellulare, questo andando proprio ad agire sul meccanismo biochimico inficiato dalla mutazione genetica”, spiega Angelo Vescovi, Direttore Scientifico dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza e Coordinatore del Progetto.

I risultati di questo studio identificano per la prima volta i processi patologici che avvengono nelle cellule dei pazienti con Sindrome di Smith-Magenis (SMS) e che rappresentano bersagli terapeutici per una futura terapia sperimentale. Esperimenti sono in corso per traslare queste scoperte in una sperimentazione clinica nel più breve tempo possibile.

Fonte: askanews.it

Studio misura effetti economici

In Italia, ictus e infarto hanno effetti a lungo termine sulla possibilità di proseguire la propria storia lavorativa e mantenere il proprio reddito. Un gruppo di ricercatori dell’Università Ca’ Foscari Venezia, Università di Torino, Università di Amsterdam e Dipartimento di Epidemiologia dell’Asl 3 di Torino hanno per la prima volta misurato questi effetti economici nel contesto italiano, riscontrando una riduzione della probabilità di lavorare del 10%, a cui si associa una corrispondente perdita reddituale. Emerge anche come le norme a difesa del lavoro possano offrire una sorta di ‘salvagente’ a chi subisce un brusco peggioramento di salute, facilitando la prosecuzione della propria storia lavorativa. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista scientifica Labour Economics.

Cosa accade dopo un ictus o un infarto? Il lavoratore può veder aumentare il proprio “costo fisso” di lavorare e essere indotto a uscire dal mercato del lavoro. Alcuni potrebbero desiderare di continuare a lavorare, ma riducendo le ore lavorate. Infine, ci sono persone che potrebbero desiderare di continuare a lavorare mantenendo lo stesso impegno orario. Dal punto di vista del datore di lavoro, le reazioni potrebbero puntare a riduzioni di orario, mancate progressioni retributive, o persino la dismissione del lavoratore. Lo studio analizza proprio le conseguenze economiche di due imprevedibili e fulminei shock di salute. “Purtroppo gli effetti degli shock di salute sulla vita lavorativa sono permanenti – spiega Francesca Zantomio, professoressa di Economia all’Università Ca’ Foscari Venezia e coautrice dello studio – nel contesto italiano è molto difficile per chi esce dal mercato del lavoro riuscire a rientrarci in un momento successivo. Inoltre, non c’è margine di aggiustamento delle ore lavorate, margine che permetterebbe di rimanere attivi ad una parte di soggetti che invece, ad orario invariato, faticano a continuare l’impiego preesistente. Perché il part-time volontario è molto poco diffuso. Né osserviamo reazioni di transizione ad altre forme di lavoro, o altri datori di lavoro”.

A livello di reddito ci sono strumenti di protezione, come la pensione di inabilità. “Non troviamo evidenza che aumenti la probabilità di smettere di lavorare e al contempo di non ricevere alcun sussidio – spiega Irene Simonetti, ricercatrice di Economia all’Università di Amsterdam e coautrice dello studio- né troviamo evidenza che gli operai (più a rischio di perdere la propria capacità reddituale) usino in maniera opportunistica strumenti di welfare, quando dotati di capacità lavorativa residua”.

“Infine – spiega Michele Belloni, professore di Economia all’Università degli Studi di Torino e coautore dello studio – i nostri risultati evidenziano come la normativa di protezione del lavoro in vigore fino al 2012 sia riuscita a favorire l’inclusione lavorativa di chi ha subito un peggioramento di salute”.

Lo studio si basa sui dati amministrativi relativi a lavoratori italiani tra il 1990 e il 2012, a cui sono agganciati dati ospedalieri che permettono di osservare le loro eventuali ospedalizzazioni non programmate e dovute a infarto o ictus. Dal 2012 sono entrate in vigore riforme normative di alleggerimento della protezione lavorativa che, secondo i ricercatori, potrebbero aver contribuito ad esacerbare disuguaglianze reddituali e di benessere nella vita dei lavoratori italiani.

Fonte: askanews.it

"Sindrome del lenzuolo", sofferenza maschile ancora tabù

“Stasera non me la sento”: sembra una scusa prettamente femminile per non fare sesso, invece, può essere il segnale di un dolore fisico o psichico associato all’attività sessuale, che colpisce anche gli uomini, di cui però si parla poco perché i maschi tendono a mascherare questa sofferenza e sono restii a consultare lo specialista. Di fronte al dolore, quindi, gli uomini sono davvero il sesso debole, incapaci di dirlo e con una forza reattiva inferiore a quella delle donne. La differenza è evidente nella sfera andrologica, dove il dolore fisico si intreccia con quello psichico e viceversa. Molto spesso i due tipi di dolore sono come un circuito vizioso che si autoalimenta: il dolore fisico, come ad esempio nel dolore pelvico cronico, genera sofferenza psicologica, con ricadute che possono spingere l’uomo fino a evitare il rapporto sessuale. Così anche per il dolore psicologico come quello per la perdita della potenza sessuale che ne favorisce lo sviluppo con una riduzione dei rapporti.

A sollevare per la prima volta il velo in cui è avvolta la sofferenza maschile, sono gli esperti della Società Italiana di Andrologia (SIA) nella terza edizione del Congresso Natura, Ambiente, Alimentazione e Uomo (NAU). Secondo gli specialisti la “sindrome del lenzuolo” colpisce 4 milioni di uomini che, in due casi su 10, rinunciano al sesso per dolore fisico e psichico. L’obiettivo degli andrologi SIA è dunque quello di proporre un cambio di paradigma nella cultura del dolore a cui troppo spesso si dà una valenza esclusivamente femminile.

“Il dolore causato da un problema andrologico può avere un impatto ingente sul benessere sessuale, individuale e di coppia – spiega Alessandro Palmieri, presidente SIA e docente di Urologia all’università Federico II di Napoli -. Sebbene sia gli uomini che le donne considerino un’appagante attività sessuale essenziale per il mantenimento della relazione, gli uomini tendono però a enfatizzare l’importanza del sesso come emblema di mascolinità e di successo. Proprio per la rilevanza attribuita all’attività sessuale – precisa Palmieri – tendono a sottacere il dolore che alla fine li porta a evitare il rapporto sessuale vero e proprio, avviando un circolo vizioso dannoso per la coppia e per l’uomo stesso”. “Negli ultimi anni la sofferenza maschile è aumentata notevolmente – dice Ciro Basile Fasolo, presidente del congresso NAU e autore del libro “Homo Patiens” dedicato al dolore nell’uomo – recenti dati epidemiologici hanno evidenziato come un maschio su tre sia affetto da patologie uro-andrologiche che possono interessare l’intero arco della vita: dall’adolescenza fino all’età avanzata. Il riconoscimento tempestivo di alcuni sintomi permette di trattare patologie quali l’ipogonadismo, la disfunzione erettile, l’eiaculazione precoce, l’infertilità, le patologie prostatiche su base infiammatoria o infettiva, che non di rado possono essere sottovalutate o addirittura misconosciute”. “Va poi tenuta in considerazione la bidirezionalità della correlazione tra dolore fisico e dolore psichico – aggiunge Palmieri – infatti il dolore corporeo come nel caso della sindrome pelvica, della prostatite cronica o del cancro alla prostata, può innescare uno stato ansioso in grado di aggravare l’impatto della patologia sulla sfera sessuale. Ma anche il dolore psichico non secondario a una patologia organica, come quello che accompagna l’infertilità maschile o le disfunzioni sessuali può avere ripercussioni di avversione sessuale fino alla rinuncia totale dei rapporti”. Le prostatiti rappresentano oggi una delle patologie più frequenti, in particolare, la prostatite cronica o sindrome del dolore pelvico cronico interessa il 10-15% della popolazione maschile e può insorgere negli uomini di qualunque età. “Ci sono diversi tipi di trattamento che consentono di gestire questa patologia – spiega Palmieri – come ad esempio le onde d’urto, ovvero onde acustiche ad alta intensità che si trasmettono attraverso la pelle nell’area interessata dove diminuiscono il dolore e accelerano la guarigione. Il problema, dunque, non è la mancanza di trattamenti, ma la reticenza degli uomini a chiedere aiuto al medico. Molto spesso la diagnosi arriva in ritardo, causando agli uomini più sofferenza, anche psicologica, che può essere invece evitata”. Un discorso simile vale anche per la disfunzione erettile, che interessa oltre 3 milioni di uomini in Italia e l’eiaculazione precoce. “A scoraggiare gli uomini è ammettere il dolore psichico causato da questi problemi – evidenzia Palmieri -. Il paziente prova imbarazzo anche a parlarne con lo stesso specialista. Si isola nella sua sofferenza e fa gran fatica a chiedere aiuto. Moltissimi pazienti sono giovani – spiega il presidente SIA – ma arrivano a consultare uno specialista solo dopo aver superato i 30 anni. E’ fondamentale una diagnosi tempestiva e precisa per aiutare il paziente nella ricerca della terapia più appropriata”.

Fonte: askanews.it